Il mormorio degli spettatori in sala,
la trepidazione degli attori e il sipario chiuso. Sono solo alcune
delle sensazioni che prova chi sta dietro le quinte, poco prima che
lo spettacolo cominci. Ed è questo che provo ogni volta che sto per
andare in scena. Quando ci vado come attrice, la testa si svuota,
quando ci vado come regista o assistente sembra scoppiare tante sono
le cose a cui devo pensare. Oggi voglio condividere con voi
l'affascinante percorso che mi ha portato di nuovo dietro ad un
sipario chiuso, così magari anch'io riuscirò a capire perché Lo
Zoo di Vetro di Tennessee Williams riesce a commuovermi sempre, anche
dopo decine di volte.
Tennessee Williams, se non lo
conoscete, è un drammaturgo statunitense tra i più importanti del
Novecento, uno di quelli che ha fatto la storia del teatro mondiale e
che tutt'oggi è rappresentato con notevole frequenza sia da
compagnie amatoriali che da compagnie di professionisti.
Prima di passare alla mia esperienza
personale come Assistente alla Regia, vi parlo della trama. Tutto
ruota intorno ad una famiglia nell'America degli anni trenta, quella
dei Wingfield, sulla quale l'abbandono del padre pesa come un macigno
e ogni membro subisce questo peso in modo differente. Amanda è una
madre possessiva e pressante, che ha cresciuto da sola i suoi due
figli. Tom, il secondogenito, nonostante la giovane età si trova
costretto a provvedere economicamente alla propria famiglia,
lavorando come impiegato in una fabbrica. Per lui è una sorta di
gabbia dalla quale vuole evadere, desideroso com'è di vivere di
poesia e di avventura. Laura, la figlia maggiore, è il personaggio
più delicato, quella che forse più di tutti subisce la mancanza del
padre. Resa claudicante da una malattia, è terribilmente insicura e
timida. I tentativi della madre di aiutarla a farsi una vita
sortiscono l'effetto contrario e così Laura si chiude sempre di più
in se stessa, vivendo "in un mondo a sé, un mondo di fragili
figurine di vetro", Lo Zoo di Vetro appunto. Amanda, personaggio
tenace e fragile allo stesso tempo, non si dà per vinta e convince
il figlio a invitare a cena un suo amico per presentarlo alla
sorella. Tom invita Jim O'Connor, suo collega alla fabbrica. Jim è
il "personaggio più realistico della commedia", in quanto
"emissario del mondo della realtà" in cui la vicenda è
ambientata ma da cui la famiglia Wingfield è come separata, chiusa a
vivere il dramma della propria esistenza. E proprio il suo arrivo
darà una scossa al fragile universo dei Wingfield, facendo cadere lo
zoo di vetro.
La storia è semplice e lineare eppure
nonostante questo riesce a coinvolgerti, perché è come la vita di
tutti noi, persone normali. Sa essere buffa anche nei momenti
peggiori, sa farti ridere ma sa anche prenderti a schiaffi in faccia,
proprio quando tutto sembra andare per il verso giusto.
Inizierò subito col dirvi che la
particolarità della messinscena del Teatro Vertigo risiede nel fatto
che sul palco il dramma è agito da attori che anche nella vita
reale sono una famiglia.
Amanda, Tom e Laura sono infatti
interpretati rispettivamente da Silvia Peluso, Gianluca e Annalisa
Arena. Inoltre è un vero legame di amicizia
quello che c'è tra l'interprete di Jim, Lorenzo Luparini, e
Gianluca.
Una scelta importante che il Regista, Marco Conte, ha
portato avanti con la volontà di ricreare nella maniera più
verosimile possibile i conflitti e l'affetto presenti in una famiglia
e la complicità tra due amici.
Come Assistente alla Regia, uno dei miei
compiti principali è stato quello di prendere nota di qualsiasi
indicazione registica, segnandola sul mio copione, in modo da poter
suggerire agli attori i movimenti da fare, le espressioni da
assumere e tanti altri piccoli aspetti, senza però mai prendere il
posto del regista.
Marco Conte ha inoltre affidato il
compito a me e ad Elisa Puccini, l'assistente di scena, della scelta
dei costumi. Si tratta di un aspetto davvero importante, perché il
costume di scena contribuisce insieme alla scenografia a creare
l'ambientazione, affina e completa l'interpretazione dell'attore e lo
aiuta ad immedesimarsi ancor di più nel personaggio. Non a caso in
alcune compagnie gli attori recitano con gli abiti di scena fin dalle
primissime prove.
Per prima cosa abbiamo fatto una
ricerca sul web per capire com'era la moda nell'America degli anni
trenta. Trovare immagini di riferimento per vestire i personaggi
femminili è stato piuttosto semplice, ma altrettanto non posso
affermare per la ricerca di immagini per gli abiti dei personaggi
maschili. Purtroppo (e ancora non so spiegarmi il motivo) qualsiasi
cosa tu possa digitare sulla barra di Google cliccando poi su
Immagini, trovi foto di donne con abiti più o meno succinti... Ad
ogni modo il segreto è solo uno: perseverare. Bisogna perseverare,
non perdere mai la speranza nelle capacità del motore di ricerca più
famoso del mondo, perché se hai fede, prima o poi qualcosa lo trovi.
Il passo successivo è stato andare alla ricerca dei costumi. Assieme a Elisa e a Federica Lucchesi, la Truccatrice e Acconciatrice, siamo andate alla sede del Teatro Vertigo e siamo entrate dentro la stanza adibita a costumeria. Accesa la luce, ci siamo ritrovate in mezzo ad un sacco di cappotti, vestiti, gonne, pantaloni, camicie, cappelli. Un delizioso arcobaleno di tessuti colorati, ordinati alle pareti come un enorme armadio a vista pieno di una molteplicità di persone d'etnia, di sesso e d'età diverse. Ci siamo guardate intorno, un po' spaesate, perché l'occhio non trovava pace, non sapeva dove fermarsi e alla fine tutta quella diversità è diventata quasi una massa informe di colori e tessuti. Ammetto che inizialmente siamo state un po' intimorite da tutta quella mole di vestiti, ma non ci siamo date per vinte. Abbiamo fatto un gran respiro, ci siamo riordinate le idee e ci siamo messe a frugare. Abbiamo selezionato gli abiti più adatti e li abbiamo sistemati in attesa dell'arrivo degli attori, che dovevano provarli e indossarli per capire se ci si sentivano a proprio agio, perché per quanto un abito possa essere azzeccato e perfetto per il personaggio, se l'attore che lo indossa non ci si sente bene, allora è da scartare.
Il passo successivo è stato andare alla ricerca dei costumi. Assieme a Elisa e a Federica Lucchesi, la Truccatrice e Acconciatrice, siamo andate alla sede del Teatro Vertigo e siamo entrate dentro la stanza adibita a costumeria. Accesa la luce, ci siamo ritrovate in mezzo ad un sacco di cappotti, vestiti, gonne, pantaloni, camicie, cappelli. Un delizioso arcobaleno di tessuti colorati, ordinati alle pareti come un enorme armadio a vista pieno di una molteplicità di persone d'etnia, di sesso e d'età diverse. Ci siamo guardate intorno, un po' spaesate, perché l'occhio non trovava pace, non sapeva dove fermarsi e alla fine tutta quella diversità è diventata quasi una massa informe di colori e tessuti. Ammetto che inizialmente siamo state un po' intimorite da tutta quella mole di vestiti, ma non ci siamo date per vinte. Abbiamo fatto un gran respiro, ci siamo riordinate le idee e ci siamo messe a frugare. Abbiamo selezionato gli abiti più adatti e li abbiamo sistemati in attesa dell'arrivo degli attori, che dovevano provarli e indossarli per capire se ci si sentivano a proprio agio, perché per quanto un abito possa essere azzeccato e perfetto per il personaggio, se l'attore che lo indossa non ci si sente bene, allora è da scartare.
L'attore e l'abito di scena devono
essere l'uno il sostentamento dell'altro e devono completarsi, un po'
come due innamorati, perché solo così possono dar vita al
personaggio. Fortunatamente, con l'utilizzo di qualche abito e
accessorio mio e di alcuni degli attori, i costumi sono stati scelti
ed approvati dal regista nel giro di una settimana o poco più. E
ormai non mancava poi troppo all'andata in scena.
A circa un mese dalla data del debutto
gli attori hanno iniziato a sentire un po' di pressione, ognuno a
modo suo. Chi era più nervoso o insofferente del solito, chi si
chiudeva in se stesso per concentrarsi meglio, chi scaricava la
tensione ridendo e scherzando... facendo innervosire ancora di più i
primi! Ma, a prescindere da come la affronti, la pressione è una
cosa positiva. Ti sprona a far di più e meglio e, anche quando dopo
una giornata intensa, all'ennesima volta che ripeti la stessa scena,
sei esausto, ti fa tirare fuori energie che non pensavi di avere.
Così i giorni si susseguivano e ad
ogni prova i personaggi hanno sempre più preso vita, i dialoghi
hanno preso il giusto ritmo e i conflitti il giusto pathos. Ben
presto, ogni volta che iniziavamo le prove, Silvia, Gianluca,
Annalisa e Lorenzo smettevano di esistere e diventavano Amanda, Tom,
Laura e Jim. Io ed Elisa davamo sempre meno suggerimenti e Marco
sempre meno indicazioni, perché ormai gli attori avevano imparato a
memoria tutte le loro battute, le espressioni, le controscene e i
movimenti e in ogni prova semplicemente riuscivano ad essere sempre
un po' di più i personaggi che interpretavano.
Tutto filava come doveva filare, almeno
fino a quando Lorenzo non si è ammalato a circa una decina di giorni
dall'andata in scena. Quando il regista lo è
venuto a sapere, vi assicuro che un pugno allo stomaco gli avrebbe
fatto meno male e, sebbene io fossi la prima a dirgli di rimanere
tranquillo, che Lorenzo si sarebbe rimesso in tempo, in realtà ero
piuttosto preoccupata. Lo eravamo un po' tutti e
probabilmente la nostra preoccupazione era infondata, perché è
risaputo che dall'influenza si guarisce nel giro di pochi giorni ma
quando la data del debutto si fa vicina la capacità di ragionamento
nei riguardi di fatti simili rasenta seriamente lo zero assoluto. Ad
ogni modo, se ve lo state chiedendo, sì... Lorenzo è guarito, sta
bene, è andato in scena insieme ai suoi compagni, ai suoi amici,
dando vita ad uno spettacolo intenso ed emozionante.
Ci sarebbe ancora molto da raccontare
di questi mesi di prove, ma ogni messinscena è come una ricetta
culinaria e il regista ne è il cuoco e... beh, qualsiasi cuoco che
si rispetti non svela mai la sua ricetta segreta! Dopotutto, anche
questi piccoli misteri fanno parte del fascino del mestiere del
teatrante.
Per concludere, a mio personale
giudizio, la decisione del regista di prendere attori che sono uniti
da legami familiari e di amicizia anche nella realtà non è stata
assolutamente banale, perché l'amore e l'amicizia si sono respirate
fin dalle primissime prove e si sono rivelati utili in quei momenti
di nervosismo e di sconforto in cui, guardando il calendario ti rendi
conto di quanto la data del debutto fosse sempre più vicina e tutto
quanto sembrasse ancora in alto mare, perché magari quella scena
ancora non veniva come avrebbe dovuto o perché quella battuta
maledetta non voleva venire in mente. E' normale quindi che tutto ciò
si sia riversato poi sulla scena, durante lo spettacolo. L'amore e
l'amicizia, a sipario aperto, non sono più concetti astratti ma
veri, autentici. Sono Amanda, Tom, Laura e Jim. Sono lì, davanti
allo spettatore. E sono lì, ad un passo da me, che sto dietro le
quinte, con in mano il copione, quell'oggetto sacro da cui tutto lo
spettacolo fluisce. L'amore e l'amicizia sono quando, vedendo per
l'ennesima volta lo spettacolo, io per l'ennesima volta mi commuovo,
mi emoziono e piango assieme ad Amanda, a Tom, a Laura, a Jim.
L'amore e l'amicizia sono quando, a sipario chiuso, dopo l'applauso
del pubblico, noi assistenti e attori e regista ci abbracciamo e ci
vogliamo bene come una vera famiglia.
Infatti il teatro è questo. È una famiglia che si mette a nudo davanti allo spettatore, che condivide con lui le sue emozioni. Se leggendo queste mie parole vi è venuta voglia di respirare quest'aria di casa, andate a teatro, passate una serata diversa, divertitevi, emozionatevi... perché teatro non vuol dire noia. Il teatro è passione. Il teatro è vita.
Rebecca
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