Ci sono compleanni che valgono inevitabilmente più di altri. Penso al famigerato
diciottesimo, ai tremendi 30, la fine della gioventù (un po' tirata per le lunghe). Ma provate a pensare al compleanno con 100 candeline. Tra gli esseri umani - purtroppo o per fortuna - non capita di frequente. Al Livorno Calcio è capitato, e noi di
Occhio Livorno ci siamo presi la briga di raccontarvi il nostro
Centenario.
Credo fosse il '95 o il '96 quando per la prima volta misi piede all'Armando Picchi. Come nella più classica delle immagini della famiglia italiana, fu mio nonno ad introdurmi in questo tempio calcistico pagano. All'epoca, il Livorno non navigava in acque così nobili come quelle dell'ultimo decennio: usciva infatti dall'ennesimo fallimento dovuto a mala gestione ed era finito nelle mani dell'imprenditore milanese Achilli. Il campionato era quello di C2 e ricordo squadre, con cui il Livorno
guerreggiava, dai nomi improbabili, una su tutte l'
Iperzola. Erano gli anni di Enio Bonaldi e Boccafogli, e a questo periodo, precisamente il '97, è legato anche il mio primo vivo ricordo di grande gioia collettiva per i tifosi amaranto: sto parlando della
promozione in C1 ai danni della
Maceratese sul campo neutro di Reggio Emilia. Ricordo mio padre, con mio nonno e altri amici adulti che tornarono da quella partita (io non ero ancora in età "da trasferta") ebbri di felicità, con gli occhi pieni di qualcosa che aspettavano da tanto tempo. L'euforia durò poco: un anno esatto dopo, a Perugia, contro la Cremonese, ventimila tifosi amaranto (tra cui chi scrive) vennero scippati del sogno chiamato
serie B.
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L'esultanza di Protti al gol che valse la serie B (foto Novi) |
L'attesa durò ancora qualche anno. Nel frattempo erano arrivati due personaggi che definire fondamentali nella storia del Livorno è più che riduttivo. Un genovese, imprenditore, innamorato del calcio di nome
Aldo Spinelli e un riminese che a calcio giocava divinamente e che all'ombra dei 4 mori aveva già lasciato un pezzo di cuore:
Igor Protti. Con Spinelli e Protti iniziarono, personalmente, i ricordi incancellabili dell'amore per il calcio e soprattutto per il Livorno. Partendo dalla finale play off persa a Como per arrivare a quel pomeriggio di aprile a Treviso, è stato un susseguirsi di emozioni difficilmente ripetibili. Già,
Treviso. Quella rimarrà la
Partita. E quello, di Igor, il Gol. La serie B da queste parti mancava da 30 anni e gli occhi lucidi degli anziani in giro per la città, abituati a categorie inferiori e continue batoste, testimoniavano l'importanza di quel traguardo.
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La prima pagina del Tirreno dopo la promozione in serie A |
I ricordi si inseguono, si accavallano e prendono spazio nella mia mente di tifoso: ripenso alla favola di
Lucarelli. Il figlio di Livorno che pagò (quasi nel vero senso della parola) per giocare con la maglia della sua città; che formò con l'uomo là sopra nella foto una delle più formidabili coppie d'attacco degli ultimi anni; che portò la sua squadra, della sua città nel salotto buono del calcio italiano. La serie A. Spinelli, con
Protti e Lucarelli, ce l'aveva fatta. Livorno era di nuovo nella massima serie dopo 55 anni. La promozione passò da un'altra trasferta epica:
Piacenza. Era una sera di maggio del 2004. Anche lì, dopo Treviso, ebbi la fortuna di esserci, di vedere, di annusare, di godere di quello spettacolo: Treviso era stata la gioia, la disperazione, la sofferenza e poi l'urlo liberatorio. Piacenza fu un tripudio; il Livorno vinse un partita in carrozza, Lucarelli fece l'amore con la maglia amaranto, Spinelli corse sotto la curva, uno stadio mobile si spostò da Livorno a Piacenza e ritorno. E poi? E poi l'indimenticabile esordio alla Scala del calcio, lo sberleffo delle bandane a Berlusconi, l'addio al calcio di Re Igor. Due stagioni in A e addirittura la
Coppa Uefa. Quante rivincite dopo anni di sofferenze e bocconi amari!
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Coreografia per la finale play off 2013 |
Diciamolo sinceramente, avevamo visto e goduto tantissimo. Ci potevamo accontentare. E invece no, perché il Livorno dalla massima categoria scese di nuovo, consapevole però che nel giro di poco sarebbe tornato. E allora dopo il romagnolo Protti un altro figlio adottato: il pratese
Diamanti. Averlo visto calcare il prato dell'Armando Picchi con il nostro amaranto è un privilegio che non dobbiamo scordarci; il talento di
Alino era merce rarissima. Classe, cuore, grinta. Ha lottato, ha fatto gol meravigliosi, si è arrabbiato, ci ha
portato in serie A e poi è andato anche lui. Era il 2009. Basta, pensai. Io, in vent'anni, ho visto cose che i vecchi tifosi non hanno visto in 50 anni di passione. Arrivò
Davide Nicola, un allenatore diverso dagli altri. Mi colpì subito, in una delle prime interviste. Disse che in ritiro si era portato uno psicologo per conoscere meglio i suoi ragazzi; alla fine di ogni partita radunava la squadra nel
cerchio magico. Creò un gruppo eccezionale che cavalcò verso la serie A, dopo l'ennesima finale play off, contro l'Empoli con gol del giocatore più rappresentativo:
Paulinho. Di quella serata, oltre il volo di
Paulo, ricordo il messaggio sbalordito di un amico non livornese. Era una foto della coreografia della
curva nord, il cuore pulsante della torcida amaranto, che mandava un messaggio chiaro alla squadra. Era la terza volta, in 9 anni, che il Livorno si riguadagnava la massima serie.
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Piermario Morosini |
Il
Centenario è fatto di ricordi, per raccoglierli tutti non basterebbe un libro. Ne ho raccontati alcuni di bellissimi, per me significativi, che hanno formato la mia memoria di tifoso. Ce ne sono di tristi, come le partite perse e le finali play off buttate.Ce n'è uno, però, che va al di là di tutto; che viene prima, che è sempre lì a ricordarci che noi abbiamo passato anche questo. È il ricordo di
Piermario Morosini e del dolore straziante che provocò la sua morte. Ripenso ai giorni successivi: ogni immagine, ogni racconto, ogni articolo di giornale non faceva altro che stringere il nodo alla gola che si era formato da quel maledetto pomeriggio. Morire su un campo di calcio, a quell'età. Pareva impossibile. Quel dolore compattò la squadra, a livello sportivo, a livello umano; non c'era partita dove non si invocasse il nome del
Moro, non c'era intervista dove i giocatori non lo ricordassero. Piermario se n'era andato, ma Livorno non lo dimenticava. Anzi. Entrò, per sempre, nel pantheon dell'immaginario collettivo di questa città.
Sono arrivato alla fine. Ho raccontato il mio Centenario, quello che ho vissuto sulla mia pelle. Ho visto la mia squadra giocare contro l'Iperzola e poi a San Siro. L'ho vista mettere piede in Coppa Uefa e passare il turno. Ho visto un portiere far gol in una partita europea (unico tra i portieri italiani) e un attaccante far l'amore con la maglia. Ho visto un presidente esultare sotto la curva con la maglia "sotto effetto daspo"e ho visto un piccolo grande uomo, il "capo degli ultras", segnare, segnare e segnare ancora. Ora mi fermo davvero, ma prima una domanda. Perché non dovrei tifare Livorno?
Auguri Vecchia Grande Unione.
Alessandro Paroli
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