Siamo due giovani studenti dell’Università di Pisa della facoltà di Giurisprudenza che, dopo aver letto un articolo pubblicato da “La voce di New York” su un documento realizzato da due studenti di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, abbiamo deciso di rispondere alle argomentazioni da loro adottate, e spiegare a nostra volta, secondo la più pura logica democratica, le ragioni del SI.
Ci teniamo però a chiarire come la nostra analisi si attesti a considerazioni che vanno oltre la politica. Il voto del 4 dicembre sarà sì politico, come lo saranno le conseguenze che da questo ne deriveranno, ma la scelta che dobbiamo fare dentro di noi, dovrebbe mettere da parte l’astio che nutriamo nei confronti della classe politica, sia che questa ci porti a votare NO, sia che, molto più difficilmente, ci porti a votare SI, a favore di una attenta ponderazione degli interessi in gioco. Passi quindi la personalizzazione che del referendum ne è stata fatta, anche se comprensibile visto che l’attuale governo è nato, lo ricorderete, al fine, tra gli altri, di superare quella che è un’anomalia italiana; passino gli slogan, che fini a sé stessi sono e dovrebbero continuare ad essere; passino gli endorsement stranieri, ed infine le generalizzazioni più disparate. Tutto questo per il semplice, fin troppo banale motivo, per il quale non siamo chiamati ad esprimere un voto sull’operato dell’attuale governo, né a scegliere i nostri nuovi rappresentanti nelle istituzioni, ma a decidere sulla più importante modifica alla nostra carta costituzionale, sia a livello quantitativo, in quanto si va a modificare tutta la seconda parte della costituzione, sia perché si cerca di introdurre una modifica sostanziale al nostro sistema parlamentare.
Con questo documento andiamo quindi a spiegare le nostre ragioni a favore del SI, rispondendo alle critiche e cercando di controbattere alle argomentazioni del NO, proposte dai nostri colleghi.
Procedimento legislativo
Nel documento del NO, si afferma che la “lentezza del procedimento normativo attuale è una tesi molto debole e la rapidità di quello futuro rimane al massimo un auspicio”. Tralasciando per un attimo esempi futili di leggi approvate in breve tempo con il sistema attuale, in quanto per talune le motivazioni sono ancora una volta politiche (non crediamo sia necessario esplicare quelle del “Lodo Alfano”, legge ad personam per la salvaguardia di interessi personali), mentre per talaltre sembra una contraddizione non andare a vedere il procedimento legislativo che ha portato alla loro approvazione “a colpi di maggioranza” (leggi quali per esempio la “Buona Scuola”, approvata in via definitiva con l’apposizione della fiducia al Senato, evidenzia la strozzatura del Parlamento anche per leggi non di indirizzo prettamente politico), sembra possibile arrivare a sostenere due affermazioni. In primo luogo, come in realtà siano decenni che si discute della lentezza del nostro procedimento legislativo, della cosiddetta Navette legislativa, in base alla quale il testo per diventare legge deve essere approvato in forma esattamente uguale alla camera ed al senato, con conseguente rimpallo anche ipoteticamente infinito tra le due camere, ed un inevitabile blocco delle leggi. Queste infatti in molti casi sono rimaste bloccate all’interno delle camere ed alcune non hanno ancora visto la luce. Se è dunque inconcepibile non ammettere la lentezza di questo procedimento, sembra assurdo affermare la sua salvezza per il fatto che fino ad ora ha riguardato il 20% delle leggi. Non si capisce infatti come mai, il fatto che abbia toccato una percentuale minima (?) delle leggi approvate, debba portare a negare la lentezza del procedimento, ed inoltre non comprendiamo come non si dia il giusto peso al fatto che molto spesso abbiamo avuto casi di “convergenza e volontà politica” nei quali indubbiamente “le leggi si approvano senza troppi ostacoli”, ma come questa convergenza non si trovi in temi dove forte è il contrasto politico. E dunque, quando questa manca, facciamo passare anni prima di fare una legge? Inoltre, la convergenza politica riteniamo, che la si possa trovare, in qualsiasi sistema democratico si vada a teorizzare. Il problema è, invece, che nella nostra situazione attuale, e futura, quella designatasi dopo le elezioni politiche del 2012, che ci ha consegnato al tripartitismo, sia inverosimile immaginare una pur minima convergenza politica, data l’indubbia poca disponibilità da parte delle forze politiche, o qualora questa ci fosse, come nel caso della maggioranza che ha portato alla formazione del governo Letta e che sostiene il governo Renzi, darebbe vita a “larghe intese”, buone , ad oggi, ad aumentare esclusivamente il debito pubblico italiano, a causa delle scelte di compromesso tra le diverse fazioni politiche volte ad accontentare i troppi interessi in ballo. Riteniamo che quindi si possa rivendicare con forza la lentezza dell’attuale procedimento, analizzato a livello procedurale, e immerso nella realtà politica. In secondo luogo, possiamo ribadire con forza come la maggiore rapidità del nuovo procedimento legislativo appaia molto di più che un auspicio. Se andiamo a leggere l’articolo 70 della Costituzione modificato, constatiamo che la moltiplicazione dei procedimenti legislativi comporterà delle difficoltà esclusivamente allo studente in materie giuridiche per sostenere l’esame di diritto costituzionale, costretto a studiarsi i differenti termini nei quali il Senato potrà esaminare e proporre modifiche ai testi legislativi provenienti dalla Camera, che dipenderanno dalla diversa materia trattata. Difficoltà facilmente superabili con degli schemi fatti a mano e una buona memoria. Il nuovo procedimento legislativo prevede infatti che le leggi prevalentemente ordinarie, saranno di competenza esclusiva della Camera, la quale dovrà trasmettere il testo finale al Senato che avrà appunto diversi termini (di regola 30 giorni, ma anche 15 o 10 a seconda delle diverse leggi) per esaminare la proposta di legge, ed eventualmente proporre modifiche al testo, che potrebbero essere accolte dalla Camera o superate attraverso il voto finale della maggioranza dei componenti di questa, con il quale il testo diventerebbe definitivo. Viene dunque indubbiamente meno il continuo rimpallo legislativo tra le due camere. L’articolo 72 della Costituzione inoltre prevede, che per leggi di particolare importanza per l’attuazione del disegno politico del governo, questo possa chiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge indicato come essenziale per l'attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all'ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei deputati entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione. In tali casi, i termini per l’esame del senato, sono ridotti della metà. Indubbia è dunque la semplificazione e la maggior celerità del nuovo procedimento legislativo per le materie ordinarie. Per 16 temi resta il bicameralismo perfetto, come riportato dall’articolo 70 della Costituzione, ovvero per le leggi costituzionali e di revisione costituzionale, leggi ordinarie elettorali, disposizioni riguardanti i referendum e le leggi di iniziativa popolare, la partecipazione dell’Italia all’UE, la ratifica dei trattati internazionali, gli enti locali, e altro ancora. Anche il lettore meno esperto in materie giuridiche potrà constatare l’importanza di queste materie, che come nell’attuale sistema, ed in quello che si viene a designare, non sono soggette ad un procedimento ordinario, ma sono attorniate da più forti garanzie. Nella riforma si prevede infatti che queste particolari leggi dovranno rimanere di competenza di entrambe le camere. Se così può indubbiamente apparire una scelta ponderata, in quanto abbiamo maggiori garanzie, la critica che viene mossa è quella secondo la quale, nel caso ci trovassimo di fronte a materie trasversali, la scelta sul procedimento legislativo da adottare spetterebbe alla decisione dei presidenti delle due camere. Se necessaria appare una riscrittura ed una maggiore specificazione all’interno dei regolamenti, indubbia, data la natura di principio della Costituzione, che comunque ha cercato di delineare i vari procedimenti legislativi, sembra difficile andare a criticare questa scelta, sotto vari punti di vista. In primo luogo, è logico ritenere, che, laddove da un procedimento unico, quello bicamerale, si vada a prevedere più procedimenti legislativi, non esista altro modo se non quello di prevedere una sorta di “giudice” terzo, che vada a decidere quale procedimento adottare nel caso in cui una legge vada a riguardare più materie. In caso contrario si richiederebbe una Costituzione che andasse a prevedere ogni infinitesimo caso di commistione tra più materie all’interno della stessa legge. Stante quindi la necessità logica di un terzo che decida in tali casi, questo avviene anche in molti altri ordinamenti, ove esistono delle cosiddette “terze camere”, delle sorte di comitati di conciliazione, che decidono quale procedimento adottare nel caso specifico. In Italia si è deciso di adottare una forma diversa di “comitato”, rappresentato dai due presidenti delle camere. In secondo luogo, sebbene appaia ragionevole ritenere che un eventuale partito di maggioranza alla Camera andrebbe ad evitare la presentazione di leggi che toccassero materie diverse, al fine di evitare l’empasse politico, dovuto dall’opposizione del presidente del Senato, con conseguente rinvio al giudice costituzionale, qualora così non fosse, non riscontreremmo un’elevata drammaticità. Il giudice costituzionale infatti andrebbe a creare una sorta di “precedente”, chiarendo eventuali contrasti futuri. In altre parole, le difficoltà rilevate fanno parte del gioco, sono conseguenze logiche dal momento che si vuole mettere in atto una modifica della costituzione. Non è possibile prevedere tutto e subito, non è possibile non richiedere una sua successiva attuazione.
Composizione del senato
La critica che viene mossa contro il fatto che con la riforma i cittadini non potranno più eleggere direttamente i nuovi senatori, pecca di superficialità. Ci dovrebbero spiegare infatti in che modo il diritto del cittadino ad eleggere i propri rappresentanti al Senato della Repubblica venga leso, nella misura in cui, nel sistema attuale, è dal referendum abrogativo del 1993 che non possiamo più esprimere le preferenze nella scheda elettorale. Di conseguenza, il cittadino chiamato ad esprimere il proprio voto nella scheda elettorale, pone una croce sul simbolo del partito preferito, ma i candidati senatori vengono scelti dal partito stesso. Dove sarebbe dunque il venir meno del diritto allo scegliere i propri rappresentanti, in un sistema dove questi vengono scelti, tenendo conto, sostanzialmente, dei voti ottenuti nelle elezioni, dagli stessi consigli regionali, rispetto ad un sistema dove questi venivano indicati dai partiti, non tenendo conto di nient’altro se non dei giochi politici? Col nuovo sistema indubbiamente i consiglieri regionali, presumibilmente quelli che hanno ottenuto più voti, saranno chiamati a ricoprire la carica di senatore, secondo una sorta di “preferenza indiretta”. Per logica conseguenza, i rappresentanti delle regioni al Senato potranno anche essere esponenti di partiti opposti rispetto al partito dominante nel consiglio regionale, anche se in misura logicamente minore, nel caso in cui i primi abbiano ottenuto più voti di altri consiglieri del partito di maggioranza in seno al consiglio. E, di nuovo, non si avrà di necessità una rappresentanza politica, invece che territoriale, ma ciò dipenderà dai risultati delle elezioni. Sfugge, a ben vedere, infine la motivazione secondo la quale i consiglieri regionali eletti a senatori, anche seguendo le indicazioni del partito, nonostante non si abbia il vincolo di mandato, non potrebbero soddisfare gli interessi territoriali. Sembra logico affermare come il partito vincente in una determinata regione avrà tutte le intenzioni, al fine di essere rieletto, a meno che non lo si voglia accusare di masochismo, ad indicare gli obiettivi da raggiungere in Senato da parte dei senatori-consiglieri regionali, per meglio tutelare gli interessi territoriali. Altro punto che non ci trova pienamente d’accordo è quello secondo il quale sarebbe da additare come un pasticcio giuridico e logico quello secondo il quale solo 21 sindaci sarebbero chiamati al ruolo di senatori rispetto agli 8000 comuni presenti nel territorio italiano. Difatti, sembra logico pensare, che i sindaci chiamati al doppio ruolo istituzionale, potrebbero essere quelli dei comuni più popolosi, consentendo quindi una notevole rappresentanza e rappresentatività, che non viene ingiustamente ad essere risaltata quando si utilizzano proporzione diverse, come quella di 21 su 8000. La ratio quindi della presenza di 21 sindaci potrebbe essere quella di andare ancora di più a rappresentare comuni, che per la loro densità e per la loro estensione territoriale, necessitano di maggiori attenzioni a livello nazionale. Infine, affermare che i 5 senatori eletti dal Presidente della Repubblica vadano a formare un partitino del presidente, comporta che si vada a dimenticare, da un lato, quello che è il ruolo di questi, quale quello di consigliare e guidare gli altri senatori nelle loro scelte, dopo “aver illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”, e dall’altro, la funzione e la posizione costituzionale del Presidente della Repubblica.
Capitolo diminuzione costi
Sul fatto che una riforma della costituzione non debba essere proposta per il solo motivo di andare a ridurre i costi della politica, sembra sacrosanto, sia, perché esistono altri mezzi ordinari e più rapidi ed efficaci, sia perché i costi sono forse l’ultimo problema, quando si parla delle istituzioni democratiche di questo paese, atte a garantire e rendere possibile la sovranità popolare. Altrettanto vero però che si necessita una revisione dell’impianto farraginoso ora creatosi, e un “taglio” netto al superfluo, non solo per un problema di costi, ma anche e soprattutto per un ragionamento attinente ad una maggiore fluidità ed efficienza del nostro sistema nel suo complesso. Riteniamo che, a livello assoluto, l’affermazione secondo la quale la “riduzione dei costi e delle poltrone non ha un grande valore e, in assoluto, è un nonargomento”, sembra condivisibile. Certo è, d’altro canto, che limitarci, nel computo matematico di tutti i risparmi resi possibili dalla riforma, agli stipendi dei soli senatori e delle poltrone dei tecnici del Cnel, comporterebbe una manifesta malafede nell’esposizione dei punti cardine della riforma. Difatti è opinione unanime che la riforma del 2001 ha causato un sostanziale aumento dei costi soprattutto nel settore della sanità, la cui spesa, nel corso degli ultimi quindici anni, è salita da 75 a 113 miliardi di euro, con conseguente, ed inevitabile aumento della pressione fiscale, spesa non accompagnata per giunta, da una conseguente migliore efficienza del settore, ma accompagnata da un aumento considerevole degli sprechi. Ancora, nel computo “del risparmio dei costi” bisogna andare a considerare la mole di conflitti di attribuzione Stato-Regioni, che la Corte Costituzionale si trova a dover sciogliere. Riportando dei numeri, si parla di circa 1.500 contenziosi in 15 anni, ed ancora, circa il 47% delle sentenze della Corte Costituzionale riguardano il conflitto di attribuzione Stato-Regioni. Troppo semplice non considerare queste spese come “costi della politica”. Ci si chiede invero come andrebbero catalogati, in quanto attengono al funzionamento politico del nostro sistema. Oltre ad un aumento dei costi diretto ed immediato, le modifiche della riforma del 2001 suddette hanno comportato un aumento indiretto e mediato. Difatti le imprese per esempio (e dunque cittadini e contribuenti) ad oggi sono costrette ad attendere per anni il giudizio della Consulta prima di poter fare investimenti che porterebbero benefici sul territorio. La riforma mira a rimediare alle storture precedentemente create facendo un vero e proprio passo indietro, attribuendo di nuovo il settore della Sanità allo Stato, o eliminando la competenza concorrente Stato Regioni con conseguente riduzione del contenzioso.
Capitolo democrazia diretta
Nell’articolo dei due colleghi di Bologna si fa corretto riferimento all’abbassamento del quorum di partecipazione necessario affinché un referendum abrogativo sia valido. Quella, che di per sé è già un’ottima miglioria rispetto all’assetto attuale, viene denigrata spiegando che il numero delle firme richieste, perché si possa raggiungere un abbassamento del quorum, è ottocentomila. Altrimenti, perché il referendum sia valido, è necessaria la partecipazione della maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto. Inoltre si ricorda che le leggi di iniziativa popolare dovranno essere appoggiate da centocinquantamila e non più da cinquantamila firme. Queste modificazioni possono essere percepite, da un occhio disattento, come una limitazione della sovranità popolare. E’ d’obbligo, però, precisare che non si prende in considerazione il fatto che dal 1979, su 260 proposte di legge di iniziativa popolare, sostenute da almeno cinquantamila firme, soltanto 3 sono diventate legge e lo sono diventate grazie alla congiunzione di iniziativa popolare, parlamentare o governativa. Tuttavia un numero facilmente raggiungibile di firme, grazie anche al contributo degli odierni mezzi di comunicazione, conduce alla presentazione di proposte di legge mediocri, la cui carenza giuridica è dettata dall’usuale, probabile e giustificata incompetenza dei promotori. Un esempio chiarificatore è rappresentato dalla proposta di legge quadro, di iniziativa popolare, in materia di gioco d’azzardo. Essa è stata discussa in Parlamento e mai convertita in legge. Un approccio analitico alla stessa evidenzia l’arretratezza della proposta rispetto alla vigente normativa (decreto Balduzzi), che sembra volta, più che alla tutela della salute degli individui, alla richiesta di trasferimento della potestà autorizzatoria di gioco d’azzardo in favore dei comuni. In conclusione, un numero più elevato di firme, garantisce qualità e ponderatezza alle questioni che saranno oggetto di iniziativa popolare. L’articolo 71 del nuovo testo costituzionale aggiunge l’obbligo per le camere di discutere le proposte che abbiano ottenuto tale consenso. Anche su questo i colleghi di bologna hanno sollevato delle perplessità, in particolare rispetto alle modalità con cui questa garanzia verrà rispettata, puntualizzando che è rimandata ai futuri regolamenti parlamentari. Al contempo affermano la necessità di integrare la Costituzione con future leggi di attuazione e regolamenti parlamentari. Giacché non sarebbe possibile inserire nella stessa Carta tutte le particolarità di ogni disposizione e procedimento, che altrimenti la renderebbero davvero inutilmente lunga e complessa, in che altro modo si potrebbe dare attuazione ad una garanzia, attualmente inesistente, e che rappresenta un passo in avanti verso il sostanziale aumento di peso della volontà dei cittadini?
Capitolo stabilità
In primo luogo, affermare che si possa sostenere che la stabilità di governo si ottenga grazie alla sola fiducia della camera, è, senza dubbio alcuno, difficile da credere, per ovvie ragioni, ma portando tale argomentazione contro le ragioni del Si, sembra quasi di accusare i sostenitori di malafede od ignoranza. È difatti bene ricordare, che la tanto decantata stabilità sarebbe prodotta da altri meccanismi, una su tutte il combinato disposto legge elettorale e riforma costituzionale. Stabilità, non deriva autoritaria. In secondo luogo, stante le derive attuali del parlamentarismo italiano, caratterizzato da continui cambi di casacca dei parlamentari, sgretolamenti di coalizione per le ripicche delle minoranze, ed ingovernabilità, per i diktat di quest’ultime, è inevitabile che, anche in caso di approvazione della riforma, la stabilità non potrebbe essere garantita mai a livello assoluto, soprattutto se decidiamo di accedere al campo dell’eventuale e delle probabilità. Detto questo, è compito della politica cercare di porre rimedio ad eventuali distorsioni del sistema, e le riforme, quella elettorale e costituzionale vanno in questa direzione. Per quanto riguarda lo strumento della sfiducia costruttiva, potrebbe essere senza dubbio utile ai fini della stabilità. Ma la stabilità a cui si vuole tendere non è tanto quella consistente nell'assicurare la presenza di un governo qualsiasi al posto di quello sfiduciato, quale quella di far sì che “chi viene chiamato a decidere, decida”, e lo possa fare fino a scadenza legislativa, nei limiti e nelle forme previste dalla costituzione. In caso contrario verrebbe meno, e viene infatti meno, la democrazia stessa.
In conclusione
È indubbio che i mali che affliggono l’Italia siano innumerevoli, e siamo consci del fatto che non sarebbe sufficiente la revisione della costituzione per porre fine a questi. Se pensassimo il contrario, potreste facilmente accusarci di essere degli illusi e degli sprovveduti. Ma se questo è vero, bisogna anche ricordare come con questa riforma si cerchi di provare a risolverli, e di questo ne siamo fermamente convinti. Crediamo che sia molto semplice dire “basta un sì” per il cambiamento, per fermare l’immobilismo ecc., come crediamo che sia altrettanto semplice spiegare, avendo un testo davanti, quali siano le ragioni, in relazione proprio a quel testo, che dovrebbero spingere le persone ad adottare un “Basta un NO” evidenziando senza troppo sforzo i difetti che si palesano davanti ai nostri occhi. È facile per chiunque esprimere un giudizio, che, non essendo in linea con i propri canoni, porterebbe al rifiuto. Più ricercato e raro invece sarebbe il comportamento di colui che, non fermandosi al primo impatto, si concedesse il privilegio di farsi coinvolgere dalle caratteristiche che si celano sotto uno strato un primo stato di apparenza formale.
Matteo Della Vecchia e Michele Del Macchia
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